LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Nel  processo  n. 15465/05 a carico di Filip Alina, appellante il
p.g.  avverso  la  sentenza  di  assoluzione  perche'  il  fatto  non
costituisce reato emessa dal Tribunale di Roma del 16 giugno 2005;
    Preso  atto  dell'eccezione  d'incostituzionalita',  proposta dal
procuratore generale, dell'art. 593 c.p.p. cosi' come novellato dalla
legge n. 46/2006 e dell'art. 10, comma secondo, predetta novella, per
contrasto  con  gli  articoli  24, 111, 112 della Costituzione, nella
parte  in  cui  esclude  l'appello  del  p.m.  contro  le sentenze di
proscioglimento;
    Sentita la difesa dell'appellato che si e' rimessa alle decisioni
della Corte;

                            O s s e r v a

    Ai  sensi  del  dettato del combinato disposto dagli artt. 1 e 10
della   legge   20   febbraio   2006,   n. 46,   andrebbe  dichiarata
l'inammissibilita'    dell'appello    proposto   dal   p.g.   avverso
l'assoluzione in primo grado dell'imputato.
    Questa  corte  ritiene  peraltro  che la suindicata normativa sia
sospetta  di  incostituzionalita'  perche'  contrastante  col dettato
degli artt. 111, secondo comma, e 3 della Costituzione.
    Quanto all'art. 111, secondo comma, Costituzione, il contrasto e'
apprezzabile  sotto un duplice profilo: da un lato in quanto la nuova
normativa  viene a violare il principio della parita' delle parti nel
contraddittorio,  sancito  dalla  prima  parte  del  secondo comma, e
d'altro  lato  in  quanto  viene  a contrastare con l'altro principio
della  ragionevole  durata  del processo, fissato nella seconda parte
del predetto comma.
    Non   e'   in   questione   la   facolta'   del   legislatore  di
«salvaguardare»,  sotto  il  profilo  appunto dell'intangibilita' del
giudizio  in  fatto,  la  pronuncia assolutoria emessa dal giudice di
prime  cure  (non  essendo prevista dalla nostra Carta costituzionale
l'obbligatorieta'  del  «doppio  grado  di giurisdizione»), ma appare
contrastare coi principi del giusto processo (che implicano che tutte
le  parti  possano portare avanti la loro azione con eguali mezzi) la
formulazione dell'art. 593 c.p.p. novellato, che inibendo sia al p.m.
che   all'imputato   di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,  se  viene  ad incidere solo su elementi marginali e
comunque  non  essenziali dell'azione difensiva (nei limiti nei quali
l'imputato  non  puo' appellare avverso sentenze di prescrizione o di
assoluzione  nel  merito con formule diverse dal fatto non sussiste o
non   aver   commesso   il   fatto)   condiziona  invece  l'esercizio
dell'attivita'  principale  dell'organo di accusa pubblica laddove lo
stesso  non  solo,  al  pari  dell'imputato,  non puo' piu' appellare
avverso  le  sentenze  di  prescrizione  o di assoluzione con formula
diversa  da quella da lui sollecitata, ma altresi' e' impossibilitato
ad  ottenere  un  nuovo  giudizio  di fatto avverso l'assoluzione nel
merito,   giudizio   di   fatto   invece  riconosciuto  dalla  difesa
nell'ipotesi speculare di condanna dell'imputato.
    Questa  Corte  non  condivide  la  tesi, sostenuta da parte della
dottrina, secondo la quale il dettato del secondo comma dell'art. 111
della  Carta  costituzionale  farebbe riferimento solo al processo di
primo  grado, assicurando la parita' delle parti nella formazione, in
contraddittorio  della prova; e cio' non soltanto in quanto anche nel
giudizio  d'appello  e' possibile la formazione della prova, nei casi
di  rinnovo,  totale  o  parziale, dell'istruzione dibattimentale, ma
anche   poiche'  il  dettato  del  secondo  comma  dell'art. 111  non
autorizza  siffatta interpretazione «riduttiva»; da un lato, infatti,
il  cennato  comma  parla  di  «ogni  processo»  e  non  soltanto del
dibattimento   di   primo   grado  e  d'altro  lato  la  parita'  del
contraddittorio  implica,  concettualmente,  anche la possibilita' di
poter  impugnare  con  eguali  mezzi  (appunto  contraddicendole)  le
decisioni sfavorevoli alla propria parte e favorevoli all'altra. E se
puo'  senz'altro  condividersi la tesi dottrinale secondo la quale la
facolta'  d'appello  da  parte  del  p.m.  non  costituisce esercizio
dell'azione  penale  e,  quindi,  non  e',  in se stessa attinente al
principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale, non
puo'  neanche  affermarsi  che,  al contrario, il riconoscimento alla
«sola»  difesa della possibilita' di appellare pronunzie nel merito a
lei  sfavorevoli  sia  un  corollario  del  diritto di difesa sancito
dall'art. 24  della  Costituzione,  poiche',  per  quanto  esposto in
precedenza,  la  nostra Carta costituzionale non garantisce il doppio
grado di giurisdizione.
    E' si' vero che sono compatibili con l'ordinamento costituzionale
come  sostenuto  in  pregresse  pronunce  della  Corte costituzionale
(antecedenti   comunque   la   novella   costituzionale  sul  «giusto
processo»)  talune  limitazioni  dei  poteri d'impugnazione del p.m.,
quali  si  rinvengono,  in  particolare,  nella  disciplina  del rito
abbreviato,  ma,  a  parte il rilievo che detta disciplina, nella sua
formulazione   precedente  alla  novella  n. 46/2006,  non  intaccava
comunque  il  fondamentale  potere  del  p.m. di appellare avverso le
sentenze  di  proscioglimento,  va osservato che siffatte limitazioni
trovano  una  giustificazione  razionale nell'esigenza di compensare,
con  una  riduzione  dei  poteri  d'impugnazione, il vantaggio che in
detto  rito  alla parte pubblica derivava dalla piena utilizzabilita'
degli  atti  d'indagine;  giustificazione  razionale che appare arduo
individuare  nel  divieto generalizzato per il p.m., quale che sia il
rito  adottato,  di  appellare  le  sentenze  di  proscioglimento nel
merito.  Ne'  alla  prospettata violazione della parita' delle parti,
quale  sancita dall'art. 111, secondo comma, Costituzione, puo' porre
rimedio   la   facolta',  riconosciuta  al  p.m.  dal  secondo  comma
dell'art. 593  c.p.p. novellato, di proporre appello nelle ipotesi ex
art. 603,  comma  2,  se la nuova prova e' decisiva; infatti, anche a
prescindere da ulteriori sospetti di costituzionalita' che potrebbero
muoversi,  in via subordinata a tale previsione, (laddove in sostanza
ancora  la  durata  dei  «tempi»  in  cui  ricercare  la  nuova prova
all'arbitrio  del giudice di primo grado nella fissazione dei termini
di  deposito della sentenza di primo grado e nel rispetto di essi) e'
agevole  replicare che trattasi di ipotesi marginale che non intacca,
nella  sostanza,  la possibilita' del p.m. di ottenere, al pari della
difesa, una nuova valutazione in fatto su una pronuncia nel merito.
    Sotto   altro   profilo  l'abolizione  dell'appellabilita'  delle
sentenze  di  proscioglimento nel merito da parte del p.m., lungi dal
favorire  la durata ragionevole del processo, ne determina un abnorme
allungamento  dei  tempi  di  svolgimento  in contrasto col principio
costituzionale;  e'  di  tutta  evidenza,  infatti,  che  nel diritto
previgente,  ove  la doglianza del p.m. fosse fondata potevano essere
sufficienti  tre gradi di giudizio per definire il processo (sentenza
d'assoluzione  in  primo  grado, sentenza di condanna, su appello del
p.m., in secondo grado, rigetto da parte della Cassazione del ricorso
dell'imputato  avverso  la  sentenza  d'appello),  mentre  col  nuovo
sistema  normativo  saranno  necessari  non  meno  di cinque gradi di
giudizio  (sentenza  d'assoluzione  in  primo  grado, annullamento da
parte  della  Cassazione  sul  ricorso  del  p.m. con rinvio al primo
grado,  sentenza di condanna del giudice di rinvio, conferma condanna
da  parte  del  giudice  di  secondo  grado su appello dell'imputato,
definitivo    rigetto   della   Cassazione   del   ricorso   proposto
dall'appellante).
    Quanto,   infine,   all'art. 3   della   Costituzione,   appaiono
contrastare  col  principio di ragionevolezza tutelato da detta norma
sia  la  possibilita'  ancora  riconosciuta  al  p.m. di appellare la
sentenza  di  condanna  (che implica l'assurdo - cfr. raffronto anche
con  la normativa dell'art. 443 c.p.p. anche novellato - che il p.m.,
a  fronte  a  esempio, di una imputazione di omicidio, possa proporre
appello se l'imputato sia condannato per eccesso colposo in legittima
difesa  ma  non  possa  appellare  se  la stessa persona sia, invece,
assolta  per legittima difesa) sia un'evidente discrasia apprezzabile
con  riferimento alla problematica dell'appellabilita' delle sentenze
di  proscioglimento  da parte della parte civile; infatti, sempre che
non  si  ritenga  che  la  nuova normativa, sia pure per un errore di
tecnica  legislativa,  non  abbia  precluso in radice la possibilita'
della  parte  civile  di appellare le sentenze di primo grado, sia di
condanna  che  di  proscioglimento,  la  violazione  del principio di
ragionevolezza  appare  comunque  configurarsi  nella  subordinazione
della  possibilita'  del  p.m. di ottenere un nuovo giudizio in fatto
avverso    la   sentenza   di   proscioglimento   alla   presenza   e
all'iniziativa,  nel  processo, della parte civile, dato che ai sensi
dell'art. 580  c.c.p.,  ove  la  parte  civile  proponga  appello, il
ricorso  in  cassazione  del  p.m.,  si  tramuta  automaticamente  in
appello,  con l'incongruenza che, laddove la parte pubblica e' «sola»
a  sostenere  l'accusa, non puo' ottenere un nuovo giudizio in fatto,
che puo', invece, conseguire ove sia affiancata dalla accusa privata.
    Alla luce delle suesposte considerazioni ritiene questa Corte non
manifestamente  infondata, e rilevante ai fini del presente processo,
la  questione  di  costituzionalita'  del  combinato  disposto  dagli
artt. 1  e  10,  legge  20  febbraio  2006, n. 46, nella parte in cui
precludono  al  p.m.  la  possibilita'  di  appellare  nel  merito le
sentenze  di  proscioglimento  e,  nell'ipotesi di processi d'appello
gia'   pendenti   impongono  alla  Corte  di  appello  di  dichiarare
l'inammissibilita' del predetto gravame.